Obiettivo del re di Francia Carlo VIII era una sua crociata contro gli infedeli, per la riconquista di Gerusalemme.
La realizzazione di questo piano passava per la conquista del Regno di Napoli, verso il quale egli vantava nebulosi diritti per via della nonna paterna Maria d'Angiò (1404–1463), al fine di poter disporre di una base per le crociate in terra santa.
Per avere mani libere in Italia, Carlo VIII stipulò patti rovinosi con i vicini: a Enrico VII venne dato del denaro, a Ferdinando II di Aragona venne dato il Rossiglione e a Massimiliano I vennero dati l'Artois e la Franca Contea.
Gli stati italiani, dal canto loro, erano abituati ad assoldare bande di mercenari tramite contratti detti "condotte", stipulati tra le signorie e i cosiddetti "condottieri", per la propria difesa.
Le loro tattiche di battaglia miravano quindi a minimizzare i rischi e a catturare facoltosi prigionieri, per cui l'aspetto economico era dominante. Questo modo di guerreggiare si dimostrò perdente contro le motivate truppe francesi e spagnole che si apprestavano a sommergere la penisola.
Carlo VIII era in buoni rapporti con le due potenze del nord Italia, Milano e Venezia, ed entrambe lo avevano incoraggiato a far valere le proprie pretese sul Regno di Napoli.
Così egli ritenne di avere il loro appoggio contro Alfonso II di Napoli e contro il pretendente rivale che era Ferdinando II di Aragona, Re di Spagna. Alla fine dell'agosto 1494 Carlo VIII condusse in Italia un potente esercito francese con un grosso contingente di mercenari svizzeri e la prima formazione di artiglieria mai vista sulla penisola.
Ottenne il libero passaggio da Milano, ma venne osteggiato da Firenze e da Papa Alessandro VI; lungo la via per Napoli l'armata francese distrusse ogni piccolo esercito che il Papa ed il regno di Napoli gli mandarono contro e devastò ogni città che gli resisteva.
Questa brutalità scioccò gli italiani, abituati alle guerre relativamente poco sanguinose dei condottieri di allora.
Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII, col suo generale Louis de la Trémoille, entrò a Napoli praticamente senza opposizione.
La velocità e la facilità con cui l'esercito di Carlo VIII aveva compiuto la sua impresa italiana, conclusa con la conquista di Napoli (ricordiamo la frase del Macchiavelli, «pigliare l'Italia col gesso») spaventò e costrinse infine all'azione Venezia ed il Ducato di Milano, timorosi di una completa egemonia francese sull'Italia, se non si fosse trovato il modo di fermarlo.
Il 31 marzo 1495 venne proclamata a Venezia la Lega Antifrancese: i firmatari erano la Serenissima Repubblica di Venezia, il Duca di Milano, il Papa Alessandro VI, il re spagnolo Ferdinando II di Aragona, il re inglese Enrico VII e Massimiliano I.
La Lega ingaggiò un condottiero veterano, Gian Francesco II Gonzaga Duca di Mantova, per raccogliere un esercito ed espellere i francesi dalla penisola.
Dal 1 maggio questo esercito incominciò a minacciare i presidi che Carlo VIII aveva lasciato lungo il suo tragitto per assicurarsi i collegamenti con la Francia.
Come se non bastasse, l'esercito d'oltralpe venne colpito da un misterioso morbo a Napoli. Mentre non č chiaro se la malattia provenisse dal nuovo mondo o fosse una versione più virulenta di una già esistente, la prima epidemia conosciuta di sifilide scoppiò nella città. Il ritorno dell'esercito francese verso nord diffuse la malattia in tutta Italia, e alla fine in tutto il continente. La malattia venne quindi conosciuta in quasi tutta Europa col nome di "mal francese".
Ormai le forze della Lega minacciavano le isolate guarnigioni francesi che difendevano le comunicazioni con la Francia, e Carlo VIII non ebbe altra scelta che quella di abbandonare Napoli (20 maggio 1495) e risalire la penisola, proclamando che non cercava nuove conquiste, ma solo un rapido rientro in patria.
Forse la Lega di Venezia si sarebbe accontentata di una rapida ritirata francese dall'Italia, ma l'eventualità di una possibile penetrazione futura di un secondo esercito, e l'appoggio dato da Carlo VIII ai Pisani in lotta con Firenze, spronò le forze militari della Lega all'azione.
Gian Francesco Gonzaga radunò (giugno 1495) le proprie forze per sbarrare il passo ai francesi, mentre le forze navali della Lega precludevano loro una possibile ritirata via mare, attraverso Genova.
Carlo VIII intraprese quindi una ritirata via terra, resa più difficile dal suo treno d'artiglieria e dal numeroso bottino raccolto nel corso della campagna italiana; di ritorno prese e incendiò Pontremoli, superò il passo della Cisa, scese nella valle del Taro ed il 5 luglio le sue forze raggiunsero Fornovo.
I francesi occuparono la città ed il mattino dopo (la notte aveva piovuto abbondantemente, e il Taro era in piena fuori stagione) levarono il campo e attraversarono il fiume guadagnando la riva occidentale.
L'esercito francese, che avanzava verso nord sul banco ovest del Taro, era diviso in avanguardia (al comando del maresciallo Pierre de Rohan sire di Gič), centro (al comando di Carlo VIII in persona) e retroguardia (comandata da Louis II de la Trémoille detto "Le Chavalier Sans Reproche").
L'avanguardia comprendeva 400-500 cavalieri pesanti (cavalleria destinata all'urto ed armata di lancia pesante, dotata di corazza a piastre e bardatura metallica) tra i quali anche gli Italiani del Trivulzio e gendarmi d'ordinanza francesi, supportati da circa 500 arcieri (arcieri montati, più simili a cavalieri pesanti che tiratori) e circa 3000 svizzeri, per la maggior parte picchieri, ma anche alabardieri e fanteria leggera.
Lungo il Taro era inoltre disposta la moderna artiglieria francese, circa una sessantina di pezzi ed un migliaio di addetti.
Il centro comprendeva la guardia reale, formata dai cavalieri pesanti della Guardia (gli arcieri scozzesi) e dai gentiluomini del seguito personale del re e gendarmi d'ordinanza (in tutto circa 300-400 cavalieri pesanti) nonché da balestrieri a cavallo francesi (300-400 in tutto).
La retroguardia comprendeva circa 300 gendarmi d'ordinanza, supportati dai soliti arcieri montati (circa 600); inoltre, alla sinistra di essa, lungo i monti, avanzavano le salmerie, con il ricco bottino della campagna.
A seconda delle fonti č segnalata la presenza di fanteria (principalmente tiratori, specie balestrieri mercenari francesi ma anche picchieri appartenenti alle "vecchie bande", tratte dal corpo dei Francs Archers) nel centro e nella retroguardia; in tutto comunque l'esercito francese non superava i 9000-10000 uomini.
L'esercito della Lega era accampato dal 27 giugno a cavallo della strada principale, sul banco orientale del fiume presso la badia della Ghiaruola. Lo schieramento dei cosiddetti "collegati" era più articolato, avendo Gian Francesco Gonzaga scelto un piano di battaglia abbastanza complesso.
L'esercito, forte di circa 20000 uomini (25000 secondo altre fonti) era diviso in ala destra, comandata da Gianfrancesco Sanseverino conte di Caiazzo, assoldato dal Ducato di Milano, schierato nei pressi del guado di Gairola; centro, comandato da Gian Francesco Gonzaga medesimo schierato nei pressi del guado di Oppiano; ala sinistra, schierata nei pressi dei guadi di Gualatico e Ozzano guidata da Bernardino Fortebraccio, comandante in capo delle forze veneziane. Quest'ultima era appoggiata da una cavalleria leggera, gli stradioti, una forza mercenaria greco-albanese.
Ciascuna di queste tre parti aveva una riserva (ala destra, comandante Annibale Bentivoglio; centro, comandante Antonio da Montefeltro ed ala sinistra).
In appoggio alle varie "battaglie" la riserva di cavalleria (circa 1000-1500 cavalieri pesanti divisi tra ala destra, centro ed ala sinistra), sarebbe dovuta intervenire, ma solo su ordine esplicito di Rodolfo Gonzaga, zio di Gian Francesco e veterano delle guerre svizzero - borgognone, nel momento e nel posto più adatto.
Infine a guardare il campo della Lega rimanevano circa 1000 fanti scelti veneziani e 600 cavalieri pesanti.
Non arrivarono invece in tempo per prendere parte alla battaglia l'artiglieria pesante veneziana, 3000 cernite veneziane e 1000 cernite friulane (le cernite erano una milizia veneziana non molto addestrata).
Era il pomeriggio del 6 Luglio 1495 quando la battaglia di Fornovo cominciò.
L'esercito della Lega era sul lato destro del fiume Taro a difesa di Parma mentre i francesi decisero di stare sul lato sinistro.
La posizione francese era considerata buona per la difesa perché i veneziani non avevano pulito il campo, e la pioggia aveva reso impraticabile le rive del fiume per la cavalleria.
Il piano di Gian Francesco Gonzaga era piuttosto elaborato.
L'ala destra (circa 800 cavalieri pesanti, 1700 fanti ducali milanesi, 300 picchieri tedeschi e l'artiglieria) aveva il compito di bloccare la colonna francese, tenendo impegnati i temibili svizzeri.
Nel frattempo doveva avere luogo lo scontro principale, tra gli uomini di Gian Francesco Gonzaga (500-600 cavalieri pesanti, 500-600 balestrieri montati e circa 5000 fanti veneziani), ed il centro francese, che doveva essere scompaginato e spinto contro le alture retrostanti.
A completamento di questa manovra, le forze di Bernardino Fortebraccio (circa 500 cavalieri pesanti) avrebbero dovuto attaccare la retroguardia francese, che, contemporaneamente avrebbe dovuto essere attaccata sul fianco opposto dalla cavalleria leggera della lega (circa 1500 tra stradioti e balestrieri a cavallo agli ordini di Pietro Duodo).
L'attacco della Lega cominciò a metà pomeriggio, con l'avanzata dell'ala destra del Caiazzo contro l'avanguardia nemica; il tiro dell'artiglieria francese non sortì molto effetto, forse a causa del terreno bagnato che impediva il rimbalzo dei proiettili. Ma gli svizzeri erano un nemico temibile, e prima respinsero gli attacchi degli italiani contro l'artiglieria, poi misero in fuga l'intera "battaglia" del Caiazzo.
Il compito dell'avanguardia francese fu facilitato dal fatto che il centro italiano, a causa del livello del Taro, insolitamente alto per le piogge recenti, aveva dovuto guadare più a monte, vicino alle posizioni dell'ala sinistra del Fortebraccio, in ritardo sui tempi previsti, e lasciando esposto il proprio fianco destro.
Qui si svolse la parte principale della battaglia, principalmente uno scontro tra cavallerie pesanti: dopo poco più di un'ora di combattimenti, anche le truppe di Gian Francesco Gonzaga furono respinte oltre il fiume.
Non andarono meglio le cose all'ala sinistra italiana: la cavalleria leggera compì la propria manovra avvolgente, portandosi sul retro del dispositivo francese, ma, dopo una schermaglia coi francesi, si gettarono sulle salmerie del nemico, assieme alla cavalleria leggera ed a parte dei fanti del comando di Gian Francesco Gonzaga: gli stradioti videro che la guardia francese al bottino era impegnata dalla cavalleria italiana e si gettarono alla ricerca di un facile guadagno lasciando le posizioni loro assegnate.
Fortebraccio, rimasto isolato, dovette ritirarsi.
Gli ultimi vani attacchi Italiani furono condotti dal Conte di Pittigliano; le riserve invece, non intervennero mai: Rodolfo Gonzaga era morto all'inizio della battaglia.
Dopo più di un'ora di combattimento i francesi cercarono rifugio su una collina; i veneziani disposti ad inseguirli erano troppo pochi ed entrambi i contendenti si accamparono.
I francesi persero oltre un migliaio di uomini e tutto il bottino, valutato in più di 300.000 ducati; i veneziani ebbero più del doppio di perdite umane, e i nobili di entrambe le parti erano isolati o morti.
L'esercito della Lega Antifrancese non ottenne l'annientamento tattico del nemico nonostante fosse in superiorità numerica ed ebbe circa il doppio delle perdite rispetto all'esercito regio - ciò dovuto anche all'abitudine francese di uccidere i cavalieri disarcionati contrariamente al codice bellico italiano che prevedeva salva la vita, dietro riscatto, per il cavaliere caduto dal destriero -.
Questo impedisce di parlare di una chiara vittoria tattica dei Collegati.
Tuttavia nemmeno Carlo VIII poté rivendicare un successo. Infatti l'esercito regio perse tra il dieci e l'undici per cento dei suoi effettivi (mille morti su nove/diecimila uomini) oltre che tutte le salmerie ed il tesoro reale. Nel bottino dei Collegati figuravano anche l'elmo del re, la sua raccolta personale di disegni erotici e due bandiere reali.
Il sovrano, dopo aver chiesto una tregua di tre giorni ai Collegati, scappò dal campo di battaglia nella notte tra il sette e l'otto luglio, allontanandosi dall'esercito avversario, il quale era ancora perfettamente in grado di combattere e padrone del terreno; questo, per la mentalità militare rinascimentale, era sinonimo di vittoria.
La ritirata di Carlo VIII non fu verso la Francia, come comunemente raccontato, ma verso Asti. Qui arrivò, il 15 luglio, dopo aver percorso duecento chilometri in sette giorni, con la truppa alla fame, a causa della perdita delle salmerie. Il re si chiuse in città e rimase sordo alle richieste di aiuto del Duca d'Orleans, asserragliato a Novara ed assediato dalla Lega Antifrancese. Questo atteggiamento fu dovuto soprattutto al fatto che non disponeva più né delle forze né del denaro per affrontare una nuova battaglia campale ed infatti il suo esercito non combatté più.
Infine il re di Francia si spostò a Torino dove negoziò con Ludovico il Moro il ritorno in patria, prima che i passi alpini divenissero impraticabili. Il 22 ottobre 1495 Carlo lasciò Torino ed il 27 era a Grenoble.
Carlo VIII era riuscito, ed anche abbastanza facilmente, nel suo intento principale: riportare il nucleo del proprio esercito, artiglieria compresa, intatto, oltralpe.
Ambedue le parti rivendicarono la vittoria, e tale fu (ed č ancora) considerata da molti italiani; Macchiavelli, lucidamente, la considerò una vittoria francese, mentre l'Ariosto, più prosaicamente, considerò Gian Francesco Gonzaga, se non vincitore, almeno non vinto.
Č però innegabile che la battaglia di Fornovo, riducendo drasticamente l'efficienza bellica del suo esercito, rese al re francese impossibile qualsiasi ulteriore azione offensiva nel Nord Italia.
Carlo VIII lasciò l'Italia senza alcun guadagno. Morì due anni e mezzo dopo lasciando alla Francia un grosso debito e perdendo province che ritornarono francesi solo dopo secoli. La spedizione promosse però contatti culturali tra Francia e Italia dando energia alle arti e lettere francesi. Conseguenza importante fu l'aver dimostrato come l'artiglieria potesse essere usata in modo vincente anche in campo aperto e non solo come arma statica.
Per l'Italia le conseguenze furono catastrofiche.
Tecnicamente parlando Fornovo fu una cocente sconfitta per la Lega, e ne segnò la fine politica: lo scopo principale degli italiani era impedire a Carlo VIII di tornare sano e salvo col suo esercito in Francia, e non fu raggiunto; inoltre la debolezza ed inadeguatezza della reazione italiana, e dal punto di vista militare, e da quello politico, fu un incoraggiamento per ulteriori aggressioni, che puntualmente avvennero: già nel 1499, solo quattro anni dopo, Luigi XII, succeduto a Carlo VIII, prendeva il Ducato di Milano.
Ora l'Europa intera sapeva, tramite i soldati francesi e tedeschi, che l'Italia era una terra incredibilmente ricca e facilmente conquistabile perché divisa e difesa soltanto da mercenari. L'Italia si trasformò in un campo di battaglia per decenni e, ad esclusione di Venezia, perse la propria indipendenza.
La realizzazione di questo piano passava per la conquista del Regno di Napoli, verso il quale egli vantava nebulosi diritti per via della nonna paterna Maria d'Angiò (1404–1463), al fine di poter disporre di una base per le crociate in terra santa.
Per avere mani libere in Italia, Carlo VIII stipulò patti rovinosi con i vicini: a Enrico VII venne dato del denaro, a Ferdinando II di Aragona venne dato il Rossiglione e a Massimiliano I vennero dati l'Artois e la Franca Contea.
Gli stati italiani, dal canto loro, erano abituati ad assoldare bande di mercenari tramite contratti detti "condotte", stipulati tra le signorie e i cosiddetti "condottieri", per la propria difesa.
Le loro tattiche di battaglia miravano quindi a minimizzare i rischi e a catturare facoltosi prigionieri, per cui l'aspetto economico era dominante. Questo modo di guerreggiare si dimostrò perdente contro le motivate truppe francesi e spagnole che si apprestavano a sommergere la penisola.
Carlo VIII era in buoni rapporti con le due potenze del nord Italia, Milano e Venezia, ed entrambe lo avevano incoraggiato a far valere le proprie pretese sul Regno di Napoli.
Così egli ritenne di avere il loro appoggio contro Alfonso II di Napoli e contro il pretendente rivale che era Ferdinando II di Aragona, Re di Spagna. Alla fine dell'agosto 1494 Carlo VIII condusse in Italia un potente esercito francese con un grosso contingente di mercenari svizzeri e la prima formazione di artiglieria mai vista sulla penisola.
Ottenne il libero passaggio da Milano, ma venne osteggiato da Firenze e da Papa Alessandro VI; lungo la via per Napoli l'armata francese distrusse ogni piccolo esercito che il Papa ed il regno di Napoli gli mandarono contro e devastò ogni città che gli resisteva.
Questa brutalità scioccò gli italiani, abituati alle guerre relativamente poco sanguinose dei condottieri di allora.
Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII, col suo generale Louis de la Trémoille, entrò a Napoli praticamente senza opposizione.
La velocità e la facilità con cui l'esercito di Carlo VIII aveva compiuto la sua impresa italiana, conclusa con la conquista di Napoli (ricordiamo la frase del Macchiavelli, «pigliare l'Italia col gesso») spaventò e costrinse infine all'azione Venezia ed il Ducato di Milano, timorosi di una completa egemonia francese sull'Italia, se non si fosse trovato il modo di fermarlo.
Il 31 marzo 1495 venne proclamata a Venezia la Lega Antifrancese: i firmatari erano la Serenissima Repubblica di Venezia, il Duca di Milano, il Papa Alessandro VI, il re spagnolo Ferdinando II di Aragona, il re inglese Enrico VII e Massimiliano I.
La Lega ingaggiò un condottiero veterano, Gian Francesco II Gonzaga Duca di Mantova, per raccogliere un esercito ed espellere i francesi dalla penisola.
Dal 1 maggio questo esercito incominciò a minacciare i presidi che Carlo VIII aveva lasciato lungo il suo tragitto per assicurarsi i collegamenti con la Francia.
Come se non bastasse, l'esercito d'oltralpe venne colpito da un misterioso morbo a Napoli. Mentre non č chiaro se la malattia provenisse dal nuovo mondo o fosse una versione più virulenta di una già esistente, la prima epidemia conosciuta di sifilide scoppiò nella città. Il ritorno dell'esercito francese verso nord diffuse la malattia in tutta Italia, e alla fine in tutto il continente. La malattia venne quindi conosciuta in quasi tutta Europa col nome di "mal francese".
Ormai le forze della Lega minacciavano le isolate guarnigioni francesi che difendevano le comunicazioni con la Francia, e Carlo VIII non ebbe altra scelta che quella di abbandonare Napoli (20 maggio 1495) e risalire la penisola, proclamando che non cercava nuove conquiste, ma solo un rapido rientro in patria.
Forse la Lega di Venezia si sarebbe accontentata di una rapida ritirata francese dall'Italia, ma l'eventualità di una possibile penetrazione futura di un secondo esercito, e l'appoggio dato da Carlo VIII ai Pisani in lotta con Firenze, spronò le forze militari della Lega all'azione.
Gian Francesco Gonzaga radunò (giugno 1495) le proprie forze per sbarrare il passo ai francesi, mentre le forze navali della Lega precludevano loro una possibile ritirata via mare, attraverso Genova.
Carlo VIII intraprese quindi una ritirata via terra, resa più difficile dal suo treno d'artiglieria e dal numeroso bottino raccolto nel corso della campagna italiana; di ritorno prese e incendiò Pontremoli, superò il passo della Cisa, scese nella valle del Taro ed il 5 luglio le sue forze raggiunsero Fornovo.
I francesi occuparono la città ed il mattino dopo (la notte aveva piovuto abbondantemente, e il Taro era in piena fuori stagione) levarono il campo e attraversarono il fiume guadagnando la riva occidentale.
L'esercito francese, che avanzava verso nord sul banco ovest del Taro, era diviso in avanguardia (al comando del maresciallo Pierre de Rohan sire di Gič), centro (al comando di Carlo VIII in persona) e retroguardia (comandata da Louis II de la Trémoille detto "Le Chavalier Sans Reproche").
L'avanguardia comprendeva 400-500 cavalieri pesanti (cavalleria destinata all'urto ed armata di lancia pesante, dotata di corazza a piastre e bardatura metallica) tra i quali anche gli Italiani del Trivulzio e gendarmi d'ordinanza francesi, supportati da circa 500 arcieri (arcieri montati, più simili a cavalieri pesanti che tiratori) e circa 3000 svizzeri, per la maggior parte picchieri, ma anche alabardieri e fanteria leggera.
Lungo il Taro era inoltre disposta la moderna artiglieria francese, circa una sessantina di pezzi ed un migliaio di addetti.
Il centro comprendeva la guardia reale, formata dai cavalieri pesanti della Guardia (gli arcieri scozzesi) e dai gentiluomini del seguito personale del re e gendarmi d'ordinanza (in tutto circa 300-400 cavalieri pesanti) nonché da balestrieri a cavallo francesi (300-400 in tutto).
La retroguardia comprendeva circa 300 gendarmi d'ordinanza, supportati dai soliti arcieri montati (circa 600); inoltre, alla sinistra di essa, lungo i monti, avanzavano le salmerie, con il ricco bottino della campagna.
A seconda delle fonti č segnalata la presenza di fanteria (principalmente tiratori, specie balestrieri mercenari francesi ma anche picchieri appartenenti alle "vecchie bande", tratte dal corpo dei Francs Archers) nel centro e nella retroguardia; in tutto comunque l'esercito francese non superava i 9000-10000 uomini.
L'esercito della Lega era accampato dal 27 giugno a cavallo della strada principale, sul banco orientale del fiume presso la badia della Ghiaruola. Lo schieramento dei cosiddetti "collegati" era più articolato, avendo Gian Francesco Gonzaga scelto un piano di battaglia abbastanza complesso.
L'esercito, forte di circa 20000 uomini (25000 secondo altre fonti) era diviso in ala destra, comandata da Gianfrancesco Sanseverino conte di Caiazzo, assoldato dal Ducato di Milano, schierato nei pressi del guado di Gairola; centro, comandato da Gian Francesco Gonzaga medesimo schierato nei pressi del guado di Oppiano; ala sinistra, schierata nei pressi dei guadi di Gualatico e Ozzano guidata da Bernardino Fortebraccio, comandante in capo delle forze veneziane. Quest'ultima era appoggiata da una cavalleria leggera, gli stradioti, una forza mercenaria greco-albanese.
Ciascuna di queste tre parti aveva una riserva (ala destra, comandante Annibale Bentivoglio; centro, comandante Antonio da Montefeltro ed ala sinistra).
In appoggio alle varie "battaglie" la riserva di cavalleria (circa 1000-1500 cavalieri pesanti divisi tra ala destra, centro ed ala sinistra), sarebbe dovuta intervenire, ma solo su ordine esplicito di Rodolfo Gonzaga, zio di Gian Francesco e veterano delle guerre svizzero - borgognone, nel momento e nel posto più adatto.
Infine a guardare il campo della Lega rimanevano circa 1000 fanti scelti veneziani e 600 cavalieri pesanti.
Non arrivarono invece in tempo per prendere parte alla battaglia l'artiglieria pesante veneziana, 3000 cernite veneziane e 1000 cernite friulane (le cernite erano una milizia veneziana non molto addestrata).
Era il pomeriggio del 6 Luglio 1495 quando la battaglia di Fornovo cominciò.
L'esercito della Lega era sul lato destro del fiume Taro a difesa di Parma mentre i francesi decisero di stare sul lato sinistro.
La posizione francese era considerata buona per la difesa perché i veneziani non avevano pulito il campo, e la pioggia aveva reso impraticabile le rive del fiume per la cavalleria.
Il piano di Gian Francesco Gonzaga era piuttosto elaborato.
L'ala destra (circa 800 cavalieri pesanti, 1700 fanti ducali milanesi, 300 picchieri tedeschi e l'artiglieria) aveva il compito di bloccare la colonna francese, tenendo impegnati i temibili svizzeri.
Nel frattempo doveva avere luogo lo scontro principale, tra gli uomini di Gian Francesco Gonzaga (500-600 cavalieri pesanti, 500-600 balestrieri montati e circa 5000 fanti veneziani), ed il centro francese, che doveva essere scompaginato e spinto contro le alture retrostanti.
A completamento di questa manovra, le forze di Bernardino Fortebraccio (circa 500 cavalieri pesanti) avrebbero dovuto attaccare la retroguardia francese, che, contemporaneamente avrebbe dovuto essere attaccata sul fianco opposto dalla cavalleria leggera della lega (circa 1500 tra stradioti e balestrieri a cavallo agli ordini di Pietro Duodo).
L'attacco della Lega cominciò a metà pomeriggio, con l'avanzata dell'ala destra del Caiazzo contro l'avanguardia nemica; il tiro dell'artiglieria francese non sortì molto effetto, forse a causa del terreno bagnato che impediva il rimbalzo dei proiettili. Ma gli svizzeri erano un nemico temibile, e prima respinsero gli attacchi degli italiani contro l'artiglieria, poi misero in fuga l'intera "battaglia" del Caiazzo.
Il compito dell'avanguardia francese fu facilitato dal fatto che il centro italiano, a causa del livello del Taro, insolitamente alto per le piogge recenti, aveva dovuto guadare più a monte, vicino alle posizioni dell'ala sinistra del Fortebraccio, in ritardo sui tempi previsti, e lasciando esposto il proprio fianco destro.
Qui si svolse la parte principale della battaglia, principalmente uno scontro tra cavallerie pesanti: dopo poco più di un'ora di combattimenti, anche le truppe di Gian Francesco Gonzaga furono respinte oltre il fiume.
Non andarono meglio le cose all'ala sinistra italiana: la cavalleria leggera compì la propria manovra avvolgente, portandosi sul retro del dispositivo francese, ma, dopo una schermaglia coi francesi, si gettarono sulle salmerie del nemico, assieme alla cavalleria leggera ed a parte dei fanti del comando di Gian Francesco Gonzaga: gli stradioti videro che la guardia francese al bottino era impegnata dalla cavalleria italiana e si gettarono alla ricerca di un facile guadagno lasciando le posizioni loro assegnate.
Fortebraccio, rimasto isolato, dovette ritirarsi.
Gli ultimi vani attacchi Italiani furono condotti dal Conte di Pittigliano; le riserve invece, non intervennero mai: Rodolfo Gonzaga era morto all'inizio della battaglia.
Dopo più di un'ora di combattimento i francesi cercarono rifugio su una collina; i veneziani disposti ad inseguirli erano troppo pochi ed entrambi i contendenti si accamparono.
I francesi persero oltre un migliaio di uomini e tutto il bottino, valutato in più di 300.000 ducati; i veneziani ebbero più del doppio di perdite umane, e i nobili di entrambe le parti erano isolati o morti.
L'esercito della Lega Antifrancese non ottenne l'annientamento tattico del nemico nonostante fosse in superiorità numerica ed ebbe circa il doppio delle perdite rispetto all'esercito regio - ciò dovuto anche all'abitudine francese di uccidere i cavalieri disarcionati contrariamente al codice bellico italiano che prevedeva salva la vita, dietro riscatto, per il cavaliere caduto dal destriero -.
Questo impedisce di parlare di una chiara vittoria tattica dei Collegati.
Tuttavia nemmeno Carlo VIII poté rivendicare un successo. Infatti l'esercito regio perse tra il dieci e l'undici per cento dei suoi effettivi (mille morti su nove/diecimila uomini) oltre che tutte le salmerie ed il tesoro reale. Nel bottino dei Collegati figuravano anche l'elmo del re, la sua raccolta personale di disegni erotici e due bandiere reali.
Il sovrano, dopo aver chiesto una tregua di tre giorni ai Collegati, scappò dal campo di battaglia nella notte tra il sette e l'otto luglio, allontanandosi dall'esercito avversario, il quale era ancora perfettamente in grado di combattere e padrone del terreno; questo, per la mentalità militare rinascimentale, era sinonimo di vittoria.
La ritirata di Carlo VIII non fu verso la Francia, come comunemente raccontato, ma verso Asti. Qui arrivò, il 15 luglio, dopo aver percorso duecento chilometri in sette giorni, con la truppa alla fame, a causa della perdita delle salmerie. Il re si chiuse in città e rimase sordo alle richieste di aiuto del Duca d'Orleans, asserragliato a Novara ed assediato dalla Lega Antifrancese. Questo atteggiamento fu dovuto soprattutto al fatto che non disponeva più né delle forze né del denaro per affrontare una nuova battaglia campale ed infatti il suo esercito non combatté più.
Infine il re di Francia si spostò a Torino dove negoziò con Ludovico il Moro il ritorno in patria, prima che i passi alpini divenissero impraticabili. Il 22 ottobre 1495 Carlo lasciò Torino ed il 27 era a Grenoble.
Carlo VIII era riuscito, ed anche abbastanza facilmente, nel suo intento principale: riportare il nucleo del proprio esercito, artiglieria compresa, intatto, oltralpe.
Ambedue le parti rivendicarono la vittoria, e tale fu (ed č ancora) considerata da molti italiani; Macchiavelli, lucidamente, la considerò una vittoria francese, mentre l'Ariosto, più prosaicamente, considerò Gian Francesco Gonzaga, se non vincitore, almeno non vinto.
Č però innegabile che la battaglia di Fornovo, riducendo drasticamente l'efficienza bellica del suo esercito, rese al re francese impossibile qualsiasi ulteriore azione offensiva nel Nord Italia.
Carlo VIII lasciò l'Italia senza alcun guadagno. Morì due anni e mezzo dopo lasciando alla Francia un grosso debito e perdendo province che ritornarono francesi solo dopo secoli. La spedizione promosse però contatti culturali tra Francia e Italia dando energia alle arti e lettere francesi. Conseguenza importante fu l'aver dimostrato come l'artiglieria potesse essere usata in modo vincente anche in campo aperto e non solo come arma statica.
Per l'Italia le conseguenze furono catastrofiche.
Tecnicamente parlando Fornovo fu una cocente sconfitta per la Lega, e ne segnò la fine politica: lo scopo principale degli italiani era impedire a Carlo VIII di tornare sano e salvo col suo esercito in Francia, e non fu raggiunto; inoltre la debolezza ed inadeguatezza della reazione italiana, e dal punto di vista militare, e da quello politico, fu un incoraggiamento per ulteriori aggressioni, che puntualmente avvennero: già nel 1499, solo quattro anni dopo, Luigi XII, succeduto a Carlo VIII, prendeva il Ducato di Milano.
Ora l'Europa intera sapeva, tramite i soldati francesi e tedeschi, che l'Italia era una terra incredibilmente ricca e facilmente conquistabile perché divisa e difesa soltanto da mercenari. L'Italia si trasformò in un campo di battaglia per decenni e, ad esclusione di Venezia, perse la propria indipendenza.